La poesia di Benedetti è quasi sempre un turbinìo dal quale è difficile, forse impossibile non lasciarsi trasportare. I piani di lettura sono tanti, le situazioni le più varie, i confini non si vedono e probabilmente non ci sono: così seguiamo (o cerchiamo di farlo) i salti temporali e spaziali («Passa un camion nella pioggia a Udine, / profumo di cemento / di Boston, sono lì»), le contorsioni arabesche della memoria, l’ironia ma soprattutto l’autoironia («Sarò ricco e finalmente / lascerò la poesia.»), ma anche le descrizioni minimaliste, a una prima lettura delicate, come quelle di primule, margherite e crochi che certo, sono i fiori che conosciamo, ma che nel racconto del poeta diventano solo particolare o sfondo di un paesaggio che ha necessità di emergere, di essere parola viva. E poi, aspetto da non tralasciare, un’attenzione per chi non ha e non può, per quella miseria che «ti fa essere amico di tutti.»
(Dalla prefazione di Michele Obit)
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