Sepegrepetipi, non vuol dire nulla. Vuol dire tanto.
Ci siamo arrivate con lentezza, a piccoli passi e con soste frequenti, macinando pensiero, letture, rinviando la scrittura, azzerando il già scritto, in un procedere perplesso e irrisolto pronto a ripartire daccapo ma non a rinunciare. Ne andava di ciascuna di noi, della capacità di dirci, di risalire all’origine.
All’inizio sembrò facile: che cosa ci vuole a parlare della propria lingua? Dopotutto è quella che conosciamo da sempre, descriverla sarebbe stato un gioco perfino troppo puerile. Forse definirla poteva creare qualche problema, dato che nel tempo si è mescolata con altre, ma in fondo di ‘lingua materna’ si trattava.
Da questo aggettivo, ‘materna’, sono invece divampate le questioni: ‘materna’ o ‘dell’infanzia’, ‘nativa’ o ‘della comunità’, ‘dell’origine’ o ‘primaria?
Ci siamo rese conto che la questione era più complessa di quanto avevamo supposto.
Lo strano era che l’argomento non si dipanava lungo il filo del pensiero, nessuna riusciva a comporlo ordinatamente in un susseguirsi di enunciati ben costruiti, al contrario la logica si inceppava di continuo in ostacoli imprevisti, quali la molteplicità delle lingue compresenti, la sensazione che qualcosa restasse comunque al di fuori del dicibile, la certezza che dietro al discorso sulla lingua ci fosse dell’altro, la consapevolezza che questo ‘altro’ faceva male, la tentazione di omettere, di barare.
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