Dalla prefazione di Ornella Favero:
“Io sono una tossicodipendente di 24 anni e adesso mi trovo in galera. (…) Ho solo 24 anni e non mi ricordo di aver mai veramente voluto qualcosa, di aver mai sperato in qualcosa, però giuro che ci ho provato”: così si descrive Tanja, sulle pagine del giornale del carcere di Udine, che ha avuto negli anni nomi diversi, ma uno scopo unico: creare un legame tra il carcere e la città, raccontare un pezzo della società che ci riguarda tutti, perché nessuno può dirsi immune dal male. Sono poche parole, quelle di Tanja, ma dure ed efficaci nella loro scarna essenzialità per raccontare la desolazione della tossicodipendenza. Come sono efficaci tante delle testimonianze riportate in queste pagine, che a distanza di anni mantengono inalterati la loro forza e il loro valore.
È proprio per la loro capacità di trasmettere una idea profonda di cosa significa la carcerazione nella vita di una persona che io credo che siano importanti esperienze come quelle del giornale del carcere di Udine, e non a caso mi rifiuto di chiamarlo ”giornalino”, perché i testi qui raccolti dimostrano che si tratta di un prodotto che non ha niente di infantile. Al contrario è segno di maturità e di responsabilità da parte di tante persone detenute accettare di raccontare pezzi importanti della propria vita, di mettere a nudo sofferenze e miserie, di dare un senso a esperienze profondamente negative mettendole a disposizione degli Altri, dei propri lettori, di chi ha voglia di capire di più di una realtà poco conosciuta come quella del carcere.
Ma le narrazioni, le storie di vita sono anche un modo significativo per creare un legame fra il carcere e il mondo fuori, e per ridurre quella distanza tra il carcere e la società, che la “grande” informazione contribuisce a creare, schiacciando la cronaca nera sul racconto dei reati e trasformando spesso gli autori di quei reati in “mostri”. Un modo rassicurante di far credere alla gente che esistono i “totalmente buoni e gli assolutamente cattivi”, e di far sentire noi, che viviamo nel mondo libero, tranquilli perché non saremo mai tra i cattivi. E invece siamo tutti fatti di bene e di male, e un giornale dal carcere può aiutare a riconoscere in se stessi il male e ad allenarsi a tenerlo sotto controllo.
Agli studenti che tante volte interrogano i detenuti, con il loro naturale bisogno di essere in qualche modo tranquillizzati, e gli chiedono “Ma non potevate pensarci prima”, bisogna dire che non sempre ci si pensa prima, non sempre siamo così razionali e padroni di noi stessi come vorremmo, e le testimonianze di chi “non ci ha pensato prima” sono anche questo, uno stimolo a vedere i propri comportamenti a rischio, e a fermarsi in tempo.
Ma se il carcere è una “sospensione dal vivere”, come scrive Nancy in un articolo dal carcere di Udine, questo libro aiuta anche a capire qualcosa di più di quella condizione così innaturale e violenta che è la privazione della libertà: le persone raccontano infatti anni di “non vita”, di vite sospese, di negazione della loro umanità, e ci costringono a riflettere se davvero sono queste le pene che vogliamo, pene che hanno poco a che fare con una idea della Giustizia mite, umana, rispettosa della dignità.
Scrive Denis, parlando del rapporto di un padre detenuto con un figlio: “Già il tempo è poco, almeno poterlo passare in maniera dolce e decorosa per entrambi!”: ecco, quei due aggettivi, dolce e decoroso, sembrano poco adeguati alla durezza del carcere, e invece sono un invito a ragionare sul fatto che, piuttosto che scardinare le persone dalle loro famiglie e annullarle nella loro personalità, per poi sperare di immetterle di nuovo nella società più oneste e più buone, forse è meglio pensare da una parte a un carcere più a misura d’uomo, più aperto al confronto con la società, e dall’altra a pene alternative, perché il carcere diventi davvero l’ultima soluzione, e si immaginino piuttosto altre strade, altre possibilità. E quindi altri tipi di pena, che abbiano poco a che fare con la vendetta, e tanto con la riparazione del danno prodotto alla società.
Un giornale dal carcere può aprire davvero la strada a riflessioni nuove sulle pene, e mettere in crisi le sicurezze di chi pensa che “a me non toccherà mai” e si sente certo della sua capacità di scegliere sempre il bene: meglio allora coltivare qualche dubbio, di quelli che ti vengono se leggi con autentica attenzione le pagine di libri come questo.
*Ornella Favero ha dato vita nel 1997 a “Ristretti Orizzonti”, rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova e nell’istituto penale femminile della Giudecca
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